lunes, 8 de junio de 2009

Prólogo a L´Ego Patriarcale

Prologo di Claudio Naranjo al libro "El ego patriarcal" en su edición italiana.

Fritjof Capra dice, riguardo al nostro “punto di svolta”, che in esso “la prima e forse più importante transizione si debba alla lenta e vacillante, ma inevitabile, caduta del patriarcato”. Era difficile non pensare così quando ancora vibrava in California lo spirito della “Nuova Era”, non lo è già più tanto agli inizi del terzo millennio, quando sembra che “la Grande Bestia” sia tornata ad alzare la testa. Oggi, quando il pessimismo e il cinismo davanti alla possibilità di un miglioramento della nostra situazione collettiva alimentano il disanimo e una imponente passività, ritengo opportuno reiterare la mia proposta, secondo cui abbiamo tentato di rimediare ai sintomi del nostro male senza occuparci della nostra natura fondamentale; così come avvenne nella storia della medicina quando si scoprirono i microrganismi causa delle malattie infettive, dobbiamo ospitare la speranza che un’azione orientata secondo una corretta diagnosi del nostro macroproblema ci permetta una felice risoluzione della crisi generalizzata del nostro tempo.





Questo saggio illustra la tesi che le cosiddette “grandi civiltà” sono patriarcali e la struttura patriarcale si è fatta pericolosamente obsoleta. Il che sottintende a sua volta che, se vogliamo sopravvivere a questa crisi generalizzata, dovremo mettere in discussione lo stesso concetto di civiltà. Ciò che consideriamo proprio della nostra condizione civilizzata – mostrano queste pagine – è in verità una barbarie di gran lunga maggiore rispetto a quella di coloro che ci hanno insegna-to a chiamare barbari, se solo in luogo di esaltare unilateralmente il progresso scientifico e tecnologico giudichiamo in armonia con qualità come la benevolenza, la capacità di convivenza pacifica o l’apertura alla dimensione spirituale della vita. Così come in passato inventammo i “barbari” e al contempo esaltammo la nostra superiorità al fine di arrogarci il diritto di schiavizzarli o eliminarli, oggi continuiamo nello stesso auto-inganno quando, in nome di una superiorità morale più che discutibile, giustifichiamo il dominio distruttivo che (come “signori della creazione” e suppostamente in nome dei più alti ideali) esercitiamo sulla natura e sopra le culture meno tecnologicamente avanzate. Ironicamente, la nostra pretesa superiorità si appoggia su una sorta di automutilazione psicospirituale che perpetua la nostra incompletezza esistenziale e al contempo ci porta a mascherarla dietro un velo di arroganza.


Tempo addietro, la televisione spagnola propose un interessante documentario su una tribù amazzonica in cui tutti, esclusi i bambini più piccoli, sfoggiano una bocca perforata da una canna di legno. La perforazione, si può immaginare, sarà molto dolorosa per i bambini, ma i loro genitori non sentono il minimo conflitto nel sottometterli al cruento intervento, che li trasforma, ai loro occhi, in persone complete. Un volto senza il bianco legno che fuoriesce dal mento degli adulti “civilizzati” sembra loro brutto. Tale mi sembra la nostra condizione, solo che l’operazione attraverso cui abbiamo deformato la nostra natura e acquisito codesta condizione “civilizzata” che tanto ci inorgoglisce non è fisica, ma più sottile, e interessa l’eclissi funzionale di circa due terzi del nostro cervello.


Come il sottotitolo di questo saggio annuncia, esso non solo si occupa della crisi in cui il carattere patriarcale della civiltà ci ha trascinato, ma anche di una particolare visione alternativa, proposta da un “uomo di conoscenza” che già negli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale comprese che è dall’armonia di padre, madre e figlio (intrapsíchici così come biologici) che possiamo sperare in una futura società sana. La mia fiducia nelle potenzialità trasformatrici di questa concezione e, più ampiamente, nella statura profetica di Totila Albert, hanno fatto per me da catalizzatori di un progressivo processo di comprensione, che iniziò a prendere forma in una conferenza pronunciata a Santiago del Cile durante l’agonia della dittatura di Pinochet. La sua trascrizione successivamente diventò il primo capitolo del mio libro La Agonía del Patriarcado, scritto verso la fine degli anni Ottanta. I grandi mutamenti avvenuti da allora hanno reso necessario il suo aggiornamento, e da questa necessità sono nati "La civiltà, un male curabile" e "L’Ego patriarcale".


Come si vedrà, io penso che il patriarcato continui a essere oppressivo come prima nei confronti dell’espressione delle potenzialità dell’individuo e dell’evoluzione della società, ma che si trovi ferito a morte, tanto che lo stesso infuriare della sua distruttività è anzitutto espressione delle sua condizione critica. Credo, inoltre, che il sottoinsieme di coloro che ricercano – coloro a cui il fragore del mondo non ha impedito il sentiero nascosto della trasformazione – sia la nostra risorsa più decisiva per una felice transizione verso una società sana; e che non possiamo fare nulla di più importante che trasformare l’educazione patriarcale in un’educazione per il pieno sviluppo della nostra condizione “tricerebrata”.






Voglio concludere con alcune riflessioni di Willis Harman, che negli anni Ottanta scriveva: "Nella storia, i mutamenti fondamentali nelle società non vengono fuori dai dettami dei governi né dal risultato delle battaglie, ma dal fatto che una gran quantità di persone cambiano la loro maniera di vedere le cose, a volte solo un poco." Non meno rilevante, in questo periodo storico in cui l’autorità, già quasi senza prestigio, si è fatta potere puro – economico e tecnologico-militare –
mi sembra la sua affermazione: "Indipendentemente da quanto potente sia l’istituzione economica, politica o anche militare, questa persiste perché è legittimata, e questa legittimazione riposa sulle percezioni della gente. La gente legittima e può ritirare la propria legittimazione.
Una sfida alla legittimità può talvolta essere il potere di mutamento più importante nella storia.

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